Si alzarono tutti per chiedermi scusa. In memoria di Giuseppe Di Matteo

Nel buio – Un film, un poeta. Nel buio amniotico del cinema, la luce del film e lo sguardo di un poeta. Abbiamo chiesto a poete e poeti di scrivere di cinema a partire da un film, una sequenza, un fotogramma. La rubrica, a cura di Luigi Fasciana, prosegue con la settima uscita, ospitando uno scritto di Carlo Gregorio Bellinvia.

Noi abbiamo sempre detto che non c’è modo di uccidere un cartone. Be’, Morton ha trovato il modo: trementina, acetone e benzina. Lo chiama la salamoia.

Quando queste parole uscirono di bocca a un attore di Chi ha incastrato Roger Rabbit?, in sala le persone iniziarono a chiedermi scusa, come se mi avessero fatto apposta male forse sfiorandomi, e qualcuno si accecò per me davanti alla seconda metà del film. Si alzarono, vennero da me, e mi chiesero scusa. Peraltro girandosi dalla mia parte, e ancora in mia direzione, ed io non avevo fatto proprio niente di spettacolare. Mi voltai verso lo schermo e vidi che il film non v’era più, e al suo posto si bloccavano in centro cinque fotogrammi di linguaggio base. Una scheggia vi era rimasta incastrata, e più niente scorreva.

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Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva.

A cosa avevamo assistito, a cosa stavamo assistendo, per davvero? A un cinema scientifico, a un primo, vero cinema di prova? A un’autopsia? La stessa partenza del cavallo, un ostacolo, senza mai atterraggio. Una certa ossessione tornò al passato dei cavalli di Muybridge. Da lì, non si parlava d’altro che di dove potesse finire con l’atterrare, il cavallo. Lo schermo si fulminò e, di sopra, le pitture che noi non volevamo saper vedere, ché già le sapevamo. Ci voleva la polizia in sala. Ed era tardi. Cosa avevamo visto in realtà, cosa stavamo vedendo, per cosa ridemmo prima a squarciagola, mentre ora sbiancavamo. Intervenne una nostra giustizia fondamentale, e dispiacque a tutti.

Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente.

La colpa e la vergogna erano dunque dentro di noi, ce le portavamo da casa. Eravamo là dentro chiusi a chiave da ore, tutti dichiaratamente evasi senz’altro da altre migliori situazioni, e avevamo il terrore di esser giudicati colpevoli da un’unica forza dell’ordine lì presente. Colpevoli, adulti e bambini. Un cartone animato misto per famiglie che credevamo di aver mandato a memoria. Il raggio del proiettore protestò con cinque brevi scoppi, dunque mandò in completo cortocircuito lo sceneggiato e il vivente. E lì ci spense del tutto. Certo che si rideva prima, ma si trascinarono anche troppo gli scherzi, perché in fondo era un’immagine anche l’immagine di assenza di segnale, sembrava soltanto questo, un’immagine da rianimare, così si portarono giusto sotto lo schermo immenso, per come immaginavamo funzionasse, e rinnovarono (o almeno si tentò di farlo) il massaggio agli orecchi di quella risma di foto rimaste lì indecise, imprecise nel loro transito, e si ripassò bocca a bocca ogni minima coppia di figure in bici, ogni attacco di luce rimasto senza più radice. Niente, era già morto. Tutto il cinema bloccato. E ognuno vide da sé l’illusione del grande schermo, nella sua propria illusione di vita, scorse il muto carillon di nudo cavallo e di nudo fantino che cercavano in eterno un suolo. Poi però ognuno ebbe la notizia, che eppure era già tutta di fuori. Ritornarono ad alzarsi a uno a uno per chiedermi scusa.

Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè, girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino.

*

Lo schermo rimase pallido fino al suo centro radiale, e sembrava il foglio del disegno in bianco di un cinquenne, con una tendina blu tirata in cima a mo’ di cielo, e con un orizzonte a fermare la terra del film che si smuoveva di nuovo un po’. In mezzo, il niente, il deserto. Il cielo della luna, l’albume non assorbito, la troposfera dell’infante, il margine negato di accrescimento e di miglioramento. Volevo impegnarmi anch’io nel tentativo di riavviare la magia filmica interrotta. Mi sentivo oramai un cittadino politico pieno, pure grazie ai vari cinema frequentati, e a mio modo ero anch’io con diritto di voto nella pubblica piazza. Davano, fino a pochi istanti prima, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, che fu magari provvidenziale, con la sua tecnica mista. Il rapporto (che restava sempre adulto, dell’uomo adulto in altre dimensioni, con ben altro attrito) tra i personaggi dalle diverse densità, dalle ombreggiature cancerogene che si immischiavano ai cartoni animati. Come spesso accadeva ai punti di riferimento entro una qualsiasi forma d’espressione, si finì per prevederne anche limiti e crisi, torcendo troppo a lungo quella fisica inventata da zero. Venne lo stallo: in mezzo, il lato postale socchiuso per consentire i dovuti approfondimenti alle indagini. Qualcuno, nel frattempo, diede una botta al grande schermo volendolo attivare da televisorino, da televisioncina. E forse non avrebbe mai dovuto farlo. Si animò e scese giù il cavaliere. E allunò, toccando il nostro stesso disegno. E nessuno in sala voleva pure questo.

Si alzarono tutti per chiedermi scusa, Carlo Gregorio Bellinvia

Ecco, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, che vedevo nella sua ennesima uscita natalizia, esaurì le mie residue sostanze nervose nel partecipare alla rianimazione del film. Non capivo nulla di quei particolari da pronto soccorso, a parte gli atti di polizia ulteriore svolti tra di noi, l’attivazione a culo delle seggiole (mi lasciarono lungo la schiena una gobba). La siepe dello spettatore posta davanti. Stavo studiando a scuola, per scienze naturali, la legge sulla conservazione della massa. Niente si distrugge. E continuava lo stillicidio del cinema-televisore, non si riusciva a capire come spegnerne gli affondi sonori. Da dove le tubature dell’audio goccia dopo goccia perdessero nella sala, in maniera così insopportabile.

Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra.

Non si riusciva più a uscire da quella gabbia, da quella terribile vocina superiore. Non si spegneva la voce del televisorino, del cinema retrocesso a elettrodomestico. E Chi ha incastrato Roger Rabbit? pareva un attuale film di polizia, e non un innocuo poliziesco. Mi chiesero scusa sempre più insistentemente. Iniziarono a chiedermi scusa con la frequenza folle del movimento dentro un film muto. Cercai di stringere tutte le loro mani, ma divennero sempre più decise le loro strette, mi abbracciavano sempre più forte. Più violentemente, una fitta gragnola. Mi iniziarono a far male. Dovetti alzarmi dal sedile e scendere le scalette rosse, e anzi scappare sempre più precipitosamente. I grandi intanto chiedevano scusa a tutto, soprattutto allo schermo, e lo bucarono. Molte scuse porsero anche alle piantane, alle plafoniere, alle porte, agli specchi nel dietro le quinte, baciarono tantissimo una porta d’emergenza e, scusandosi, violentemente la divelsero uscendo a furia di inchini, di lacrime acide e di mani loro sempre più congiunte, strette, taglienti, senza spoilerare a chi aveva appena pagato il biglietto, ed entrava.

(…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè, si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire.

***

Leggi altro dalla rubrica Nel buio – Un film, un poeta, curata da Luigi Fasciana. Articoli di:

  1. Umberto Fiori
  2. Vincenzo Frungillo
  3. Ida Travi
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  5. Laura Pugno
  6. Franco Buffoni
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Poverina, poverina…
la voce, la scrittura: nascita d’una poetica
(Vivre sa vie di Jean-Luc Godard, 1966)

Nel buio – Un film, un poeta. Nel buio uterino e amniotico del cinema, la luce del film e lo sguardo di un poeta. Abbiamo chiesto a poete e poeti di parlare di cinema, ma a partire da un film, una sequenza, un fotogramma. La rubrica, a cura di Luigi Fasciana, prosegue con la terza uscita, firmata da Ida Travi e dedicata al film “Vivre sa vie” di Jean Luc Godard.

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