1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?
Direi Ritorno a Planaval Stefano Dal Bianco, il volume con tutte le poesie di Mario Benedetti, La fine di quest’arte di Silvia Bre, Il profilo del Rosa di Franco Buffoni. Senza dimenticare gli ultimi due libri di Zanzotto, e quel capolavoro che è Principio del Giorno di De Signoribus.
2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Sì, credo che chi scriva poesia sia molto meno integrato o integrabile di altre persone, tende a comunicare molto con se stesso, da io a io, e quindi a isolarsi e ad avere uno sguardo molto più parziale sulle cose, sul mondo, sulla storia. Non so se lo si riconosca a prima vista, ma i poeti che conosco più da vicino sono persone sempre molto concentrate sul loro mondo di valori e significati, e talvolta distratte sul resto.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
No, purtroppo no. Un po’ per la forma mentis dei poeti di cui ti ho detto sopra, ma soprattutto perché la mia scommessa è quella della profondità e della ricerca del significato delle cose e dell’esistenza. Su questa strada sono sempre in pochi a seguirti, in molti a ignorarti, in troppi a non sapere che dire.
4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?
Con la poesia straniera si respira. Questo mio nuovo lavoro, Minimo Umano, è molto ibridato di scritture di poeti e narratori non italiani. Ma detto questo è detto niente: ci sono almeno una ventina di nomi di poeti europei che puoi trovare nelle librerie di mezza Europa, ovviamente non tradotti in italiano, che se venissero portati in Italia avrebbero l’effetto di una brezza di aria nuova che non potrebbe che svecchiare e sprovincializzare questo angusto club dei poeti che si cannibalizzano e vicenda, pubblicandosi, recensendosi, facendo in letteratura l’equivalente dell’economia di sussistenza, che rende lo scrivere versi un’attività poco interessante a chi non la pratica direttamente. E questo è un grosso problema, che ormai va avanti da decenni. L’autoreferenzialità non della poesia, ma del mondo della poesia.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Certamente. Dalla musica. Ascolto musica da mattina a sera. Teatro musicale, musica del ‘900, anche quella più avanzata e inascoltabile, ho sempre mille echi nelle orecchie e nella mente, e mi piace credere che qualcosa poi arrivi alla pagina.
6. Che rapporto hai con la rima?
Le rime vengono da sole, hanno una poro funzione ritmica e di significato, nel senso che lo richiamano e lo mettono in evidenza, non sono più un tabù, ma, appunto, quando vengono da sole, non cercate, insieme al tessuto sonoro del verso, fatto di allitterazioni, consonanze, assonanze, disseminazioni e tante altre figure retoriche che non sto qui a elencare. Il risultato è che le parole si richiamano una dietro l’altra, a vicenda, e questo, quando accade, è davvero molto gratificante.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Direi Alberto Pellegatta, Franca Mancinelli, Marco Corsi, Francesco Maria Tipaldi. Cito un po’ a mente, chiedo venia.
Griselda dei Balcani
Avrei potuto amarti
come una oscillazione indipendente
dal sorgere e calare del giorno
sulla collinetta di Santa Teresa,
ti immaginavo qui, fuori dal coro,
nel paesello incorrotto della villa,
agitarti e fare fuoco, stanarmi in fretta
e uscire, lasciare una scia di plettri
tra l’odore delle stanze, mentre ti spogli
dei tuoi fianchi leggeri, vicino alla suburra
dei tuoi figli di carne vogliosa, nella cascata
dei seni che li ha generati, loro e altri milioni
il cui suono non arriva a noi, perché non siamo
più figli di nessuno e la nostra origine variabile
non si fa più sentire né adorare.
Avrei voluto amarti, perché la notte
sei sveglia come me, metti pareti divisorie
tra la pillola che lotta per dormire e la mente
che cerca una meta, proprio qui dove non
ci sono più vette né obiettivi, né lenti bifocali
per vivere senza ferirsi, nella nuova
e totale convivenza con un mondo
che non ci cerca e non fa simpatia.
Dure creature come noi, ma non inizia il piagnisteo.
Due esseri invitati, e questa storia che non regge.
Due capodogli spiaggiati, fanno l’incubo in un miracolo.
E invece accade che. Ora dovrei dire cosa accade,
ma non succede altro che una misteriosa
archiviata solitudine, che punta diritto alla trachea,
fa un giro per luoghi indifferenti, che si vedono
nei sogni ottenebrati e poi nessun rumore,
soltanto le dita sull’interruttore e il bruciore del gas
nella caldaia. Dipende dai giorni.
Tutto dipende dai giorni. Passano senza passare,
vengono e nessuno li vede, ci lasciano
cicatrici sulle mani e sul viso,
a noi che da soli si va in retromarcia, e mentre
il radar dei viventi imputridisce, procreiamo
la fine di noi stessi in amicizia, e al tempo
che avanza sugli omeri deviati
diciamo benvenuto, e mai arrivederci.
Continua solo un bacio a tre giri di corda
che ci frammenta le ossa e stronca il desiderio,
mentre sembri suonare l’arpa,
quando sei allo stenditoio, su in veranda,
in faccia al mare aperto, quello non mio, in Albania.
Scontro
Bicchieri messi a tacere nella notte.
Rivoli di pioggia che fuoriesce dai canali.
Don che ha vinto un figlio alla lotteria della natura.
Piccoli segni, quello che è dato avere.
E c’è una barriera estranea, la tua mente,
che vuole dominare e non ascolta.
Consumi donne per dire che vivi. Prendi libri
per scrivere altri libri, invece avanza
senza protezione, comincia a guardarti le mani,
fai un collegamento
tra la Croce degli Annegati nella piazzetta
e il buio corallo dei fondali marini.
Ho perduto la testa quella sera. Volevo essere
ovunque e correvo, l’auto ha sbandato,
tutto è andato a fondo. Quella vitalità
era razzia di un sogno. Solo il dolore
è stato vero. E la vergogna, tremenda,
mi ha fatto rialzare e stare qui, questa mattina,
nel bosco di una strada senza nome,
a correre tra alberi e radici, fango e pori aperti,
metà del mio corpo mai sentito,
l’altra metà preda dell’orrore.
Stelvio Di Spigno