Laura Di Corcia è un nome che aspettavo di risentire. Dal 2017 precisamente, anno in cui la sua plaquette Traduzioni e microsismi si è aggiudicata il riconoscimento della critica al Premio Rimini/Parcopoesia. Ed è successo: quel nucleo di poesie che ricordo così denso, costruito millimetro per millimetro tramite un linguaggio affilato come un coltello da carne, si è evoluto nel libro In tutte le direzioni, edito da Pordenonelegge-Lietocolle nel 2019.
Probabilmente è scontato iniziare una recensione fermando lo sguardo del lettore sul titolo, ma in questo caso il titolo è la porta di fronte alla quale è necessario arrestarsi. Perché, a tutti gli effetti, non esiste una strada unica per attraversare la poesia di Laura Di Corcia, a meno che non si voglia correre il rischio di banalizzarla: tutte le direzioni sono la direzione. Il testo si regge su tensioni uguali e contrarie, esse partecipano a una costruzione poetica che può, a una prima lettura, apparire disarmonica ma che invece è frutto di una raffinata capacità creativa perché, in questo libro, la poesia si frammenta, si moltiplica, si rispecchia in se stessa mantenendo intatta la sua coerenza. Quando racconta l’identità e la migrazione – la traduzione, quindi, nel senso più classico del termine – ovvero condurre qualcuno da un luogo a un altro, da un’identità a un’altra – l’autrice procede per sottrazione, linguistica e prospettica, si avvale cioè di una parola tanto scarna da diventare allegorica e di una narrazione per frammenti, non onnisciente. Questa costringe il lettore a calarsi nella prospettiva di chi non può conoscere le conseguenze di ogni suo passo, di uno straniero in viaggio o in fuga, e a percepirne la realtà dal momento che – proprio come lui, lei, loro – non ha idea di che cosa accadrà; sin dai primi versi, mi è sembrato di vedere delle analogie con un’opera di altro genere, l’installazione curata da Alejandro G. Iñárritu per la Fondazione Prada nel 2017, CARNE y ARENA. Basato sul racconto di fatti realmente accaduti, il progetto di Iñárritu permetteva agli spettatori di vivere, tramite le tecnologie della realtà virtuale, un frammento del viaggio di un gruppo di rifugiati. «Nasce una fusione d’identità: un’unità psicofisica dove, varcando la soglia del virtuale, l’umano sconfina nell’immaginario e viceversa», ha affermato il regista. Nel caso di In tutte le direzioni, la soglia è quella della poesia, ma ritengo simile il metodo e lo scopo: realizzare un’unità tramite frammenti divergenti e condurre il lettore all’immedesimazione.
Nella raccolta della Di Corcia si procede per slanci che hanno un solo obbiettivo: andare avanti, oltre, «[…] al di là del muro, / al di là di questo vuoto / che ci mangia le mani / al di là del muro che affoga le paure / e le mescola nelle onde che sfidano». Questo aldilà ha molteplici nomi e altrettante forme, proprio perché assume i connotati che le speranze individuali proiettano su di esso, e Laura Di Corcia lo scolpisce verso dopo verso, lo avvolge nella sacralità del miraggio cosicché, ogni volta che viene nominato, provoca un senso di vertigine; una vertigine simile, ad esempio, a quella che causa il «laggiù» di David Grossman nel poema Caduto fuori dal tempo: «l’aldilà» e il «laggiù» sono entrambi luoghi oltre un confine, dai quali non si fa ritorno. In tutte le direzioni è una contro-Odissea, il canto in cui il ritorno è una meta a cui non aspirare e il passato non è una spinta ma una condanna, e deve essere inibito per la pura sopravvivenza («ci avevano detto costruitevi / una nuova vita, polverizzate / i profili delle nostalgie, / pestate / i ricordi come l’uva»).
Più che al peregrinare di Odisseo, il viaggio di questi sempre-in-cammino assomiglia a quello compiuto dagli Argonauti, citati a più riprese nel libro; d’altronde il mito degli Argonauti rappresenta per eccellenza il viaggio verso terre ostili, e soprattutto straniere, alla ricerca del fantomatico vello d’oro. Non è un caso che Laura Di Corcia scelga di amalgamare storia contemporanea e storia antica, c’è una concezione circolare del tempo che soggiace a questa scelta e che è resa esplicita nella forma del «cerchio», ricorrente insieme a un altro prestito del mondo classico, il fato; così si costruisce intorno alla disperazione degli uomini un recinto dove sono costretti a ripetere all’infinito la loro tragedia. Partenza e dolore, ricerca e morte, forse arrivo: «non sai che la storia / non risolve niente? Partiamo e cerchiamo, / il dolore non rafforza, ma umilia i piedi. / Coazione / la tua violenza / la cantano i fiumi». E poi l’al di qua, un tempo presente che si dilata oltre la sopportazione, che per la sua staticità si lega alla brutalità del deserto e delle pietre («il sempre delle pietre mi violenta»).
A frammentarsi sono anche le identità e le voci narranti che si accumulano all’interno del libro. L’io lirico che coincide con la narrante non si fa soggetto se non in rare occasioni che spezzano la voce collettiva prima di tornare ad amalgamarsi con essa; è come se Laura Di Corcia avesse deciso di affidare il racconto del dolore a una coralità, nel tentativo di renderlo universale, di portare alla luce l’io all’interno del voi. Tramite le similitudini che accomunano l’essere umano a un altro essere umano – la paura, dell’altro e della morte, la fame, il desiderio, il ricordo, la casa, l’amore – la figura dello straniero viene introiettata, non è più altro da sé ma una parte dell’individuo, che può rimanere dormiente o essere innescata da fattori esterni. Però esiste: la vera necessità, quindi, è conoscersi come potenziali stranieri di qualcun altro. Un elemento interessante: la stessa autrice, all’interno del dialogo-corrispondenza con Davide Castiglione sul blog La Balena bianca, racconta di aver vissuto delle “traduzioni” che l’hanno segnata: «la mia storia familiare è intrisa di spostamenti, da Sud a Nord, e per quanto mi riguarda dall’Italia alla Svizzera in età adolescenziale, un passaggio non proprio indolore. Per questo ho sempre percepito il tema del confine come qualcosa di strutturante la mia identità, una crepa, una faglia che mi fonda e al contempo mi sbilancia, costringendomi a sporgermi». Esiste quindi un io che frammenta la propria esperienza personale per rinascere come collettività.
Non è difficile rintracciare moduli propri della tragedia greca, soprattutto nella terza parte – Qui. Un poemetto – dove dalla coralità emergono figure-tipo, ruoli cristallizzati nei titoli delle singole liriche: il coro, la coppia, lui, lei, il gruppo di ragazzi siriani. Di certo, la scommessa della Di Corcia è infilarsi nella pelle degli altri rinunciando alla mimesi del linguaggio: già in altri luoghi si parla del ritorno a una lingua originaria («la mamma ti parla la lingua /delle radici e delle anguille»), che potrebbe essere sì quella del paese natìo ma anche una lingua-madre, una lingua archetipica. Il lessico giornalistico che si ritrova nell’uso frequente della paratassi e dell’imperfetto, e in una narrazione che non si abbandona alla facile retorica del dolore, si mescola nella terza sezione con un linguaggio ricco di metafore alienanti, quasi apocalittico in certi passaggi, trascinando il lettore di fronte alle testimonianze della sofferenza, costringendolo a guardare la madre, gli amanti, il giovane uomo che viaggia da solo; la voce del coro irrompe per tenere le fila del discorso, sposta lo sguardo sull’origine della direzione e s’interroga sulle cause della «spinta originaria» capace di sradicare uomini e donne di ogni luogo e ogni tempo.
Di grande valore anche la capacità dell’autrice di forgiare metafore e similitudini caustiche, dolcissime e perturbanti: il mondo animale e quello vegetale si dilatano, si fanno troppo vicini per non produrre un senso di inquietudine o di straniamento, e così il bambino avvolto nel lenzuolo diventa «il re di tutte le libellule», sulla bocca una bestemmia bolle «come un acino d’uva, una serpe», le case sono «pane scavato dentro, pance di balena, gusci aperti» e si cercano i cadaveri «come i maghi d’Africa».
Dedico un’ultima riflessione alla Trilogia del rosso, una serie di tre poesie che raccontano il corpo di una bambina che cambia, la prima mestruazione e l’amore che si genera da un rosso ancora acerbo; il tabù della femminilità è detto senza pudore, come deve essere, e a questa trilogia sono legati alcuni dei versi più intensi del libro: «Devi pulirti così, vedi? / Spolverare i mobili / essere profumata / vergognarti di non essere una pianta».
Silvia Righi
I.
Violavano la notte, custodivano
nelle mani chiare
perle come bombe.
Quegli occhi trasparenti avrebbero mai potuto
celebrare il mistero della morte?
pensavano le donne, di fronte lo specchio.
Li uccisero senza fremere
le loro dita erano bianchissime.
In fila indiana non si voltarono
avevano fatto il loro lavoro
il mondo era un mantello sbiadito.
II.
Non cedo il posto, non indietreggio
di fronte alla coltellata del creato.
Il mare si corruga, cede spazio al chiodo:
e lì, nel pugno della ruggine
io so che la paura si può chiudere
ritagliare come un cerchio.
Ho deciso di sacrificarmi al vettore
alla biglia dell’essere.
Intrecceremo fiabe ai tronchi
lasceremo seccare i limoni:
cercheremo i cadaveri come i maghi d’Africa.
III.
Hai agito come se il cervello
fosse un fenicottero, una piuma
come se il cuore fosse un giovane bardo.
Non sai che la storia
non risolve niente? Partiamo e cerchiamo,
il dolore non rafforza, ma umilia i piedi.
Coazione,
la tua violenza
la cantano i fiumi.
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da Trilogia del rosso
IV.
Non è facile per una bambina
accettare che dal rosso si genera il verde
e poi il mare, le barche che vanno.
La prima volta fu in bagno
tutta la famiglia fu avvertita
poi c’è stata la faccenda delle tette.
Ma non era il corpo a spaventarti:
la paura era tutta nel vedere
tua madre inchiodata al muro
mentre tu iniziavi a tessere la partenza.
Dal rosso prende inizio la storia:
sul viso, un’amara memoria.
V.
Abbiamo eretto barriere, steccati
nelle nostre menti, ma è bastato sfiorarsi
perché tutto tacitassero le mani, dapprima,
poi le braccia e anche le spalle.
La mente costruisce cumuli di cose,
montagne di mattoni, iati, i corpi,
invece, tendono alla caduta, sprofondano
nell’energia dell’atomo, si arrendono
alla discesa e annichiliscono il piombo.
Non so se hai capito con che disperazione
mi sono aggrappata al tuo collo,
annullando tutto ciò che non era presente.
Laura di Corcia
Laura Di Corcia
Laura Di Corcia è poeta, saggista e giornalista culturale. Ha pubblicato due libri di poesia, In tutte le direzioni (Collana Gialla Pordenonelegge, LietoColle, 2018) e Epica dello spreco (Milano, Dot.com Press Poesia, 2015). Ha inoltre scritto la biografia in forma d’intervista Vita quasi vera di Giancarlo Majorino (Milano, La Vita Felice, 2014; collana Sguardi). Alcuni dei suoi testi sono tradotti in inglese e spagnolo.