Valentina Murrocu | La “vita così com’è” e il conflitto che ci attraversa

Valentina Murrocu (Nuoro, 1992) vive a Siena. Nel 2018 è uscita la sua opera prima di poesia, "La vita così com’è" per le Marco Saya Edizioni. In questo articolo Francesco Ottonello introduce l'autrice con una breve intervista ed una scelta di cinque testi - di cui uno inedito (Discorsi, 2020). Al termine dell'articolo potete ascoltare la poetessa leggere ad alta voce i suoi versi.

Leggendo i tuoi testi, ciò che mi ha colpito è una visione lucidissima e apparentemente disincantata della vita. Come recita il titolo del tuo notevole libro di esordio, la tua poesia non idealizza, ma accoglie «la vita così com’è». Tuttavia, l’accettazione mi pare imperfetta, come se agisse al di sotto un’irrequietezza verso i luoghi, le persone, gli oggetti. Pensi che la tua poesia nasca da un conflitto, o è una risposta al conflitto? La tua poesia verso dove tende?

Faccio una premessa: La vita così com’è è la traduzione di «life as it is», ciò che scrive Wallace Stevens in un verso tratto da The Course of a Particular: «one feels the life of that which gives life as it is», ovvero – e qui mi servo della riscrittura fatta da Guido Mazzoni (La pura superficie, 2017, p. 34) – «si sente la vita di ciò che dà la vita così com’è». Ciò su cui si reggono le poesie che compongono il libro è o dovrebbe essere l’accettazione della vita per come è davvero, ovvero contraddittoria. Ora, è presente, indubbiamente, un’apertura alle manifestazioni del reale, della quotidianità, anche; c’è, inoltre, una forte identificazione con il principio che dà la vita per come è, ovvero la vita stessa. Ciò che posso dire del conflitto è che è parte dell’intero, del tutto, è la dinamica del reale, come scrive Wallace Stevens nel testo già menzionato: «And though one says that one is part of everything, /There is a conflict, there is a resistance involved;/And being part is an exertion that declines.» L’operazione che si compie quando si dice io non sfugge a questa dinamica, ne fa pienamente parte: risponde al bisogno di far parte dell’intero, senza possibilità di inclusione, di uscita dal conflitto. La poesia, la mia poesia, tuttavia, non è una risposta a questo conflitto; è la descrizione del conflitto tra parte e tutto, semmai: l’operazione che compio è sezionare il reale nelle sue manifestazioni, rendere conto di questo conflitto che ci pertiene e attraversa. Non credo che la mia poesia tenda a qualcosa, dal momento che non esiste un telos che orienti le azioni umane. Ogni poesia significa sé stessa. 

La tua poesia mi pare comporsi di due istanze opposte: da una parte, abbiamo l’ordine, la stasi, l’accettazione; dall’altra, il disordine, il movimento, l’insofferenza. Come si conciliano questi due momenti, è possibile davvero sentirsi nostri, vivi compiutamente?

Comincio citando alcuni versi di Wallace Stevens che ho messo in esergo: in Connoisseur of Chaos, il poeta statunitense scrive: «A. A violent order is disorder; and / B. a great disorder is an order. These / Two things are one». Si può dire che ordine e stasi, da una parte e disordine e movimento, dall’altra, siano due dei modi in cui si dispiega la realtà; non esiste, tuttavia, una vera opposizione tra queste istanze, esse sono riconducibili ad unità: c’è, infatti, un unico principio che vivifica il tutto. Ciò che si verifica quando compiamo delle operazioni, e lo scrivere rimanda ad una delle tante operazioni che compiamo in quanto agenti, è ridurre ad unità i frammenti, le parti che compongono noi stessi e gli altri. Siamo fatti di pezzi. Ci sentiamo nostri soltanto perché agiamo, il che presuppone di essere presenti a sé stessi: è qualcosa di tremendo e necessario insieme. 

La tua poesia ha un lessico specifico, sono molti i termini legati alla filosofia e poi numerosissimi anche i toponimi. In particolar modo, ricorrono spesso quelli milanesi, nonostante non sia la tua città. La tua provenienza è dal centro della Sardegna e abiti a Siena. Come mai Milano esercita una grande forza attrattiva nella tua scrittura? Il rapporto con la tua terra natale e con quella di residenza, invece, come si configura e inserisce nella tua scrittura? Penso alle espressioni «la lingua dei genitori distante / oltre le nuvole» o «ti indicavo il mare».

La scrittura è, anche, coscienza dei luoghi: Milano è la città in cui mia sorella vive, rappresenta il luogo del regresso all’infanzia e, insieme, quello in cui la lacerazione e i conflitti tra persone sono amplificati. É il posto in cui posso esistere veramente, alimentare autoreferenzialità ed egocentrismo, anche. C’è quasi una visione estatica, si verifica quella che chiamo apertura al cosmico, le forze che si dipanano e ci estraniano attraversano il tessuto biologico, che è anche il tessuto della città: così il Duomo, la metro di Romolo, il Museo del Novecento, Rogoredo, la 71, diventano luoghi della mente. Siena è la città in cui vivo da otto anni: è provinciale, chiusa, sento che non c’è niente oltre me stessa e i profili bassi delle case, questo è il motivo per cui è difficile uscirne; i luoghi di Siena aggregano e, al tempo stesso, dividono, penso a Piazza del Campo, alla Stazione in Piazzale Rosselli. L’entroterra della Sardegna è il luogo in cui sono cresciuta e si sono instaurati i legami primari: ho qualche difficoltà a parlarne, esiste come entità astratta – un viaggio in macchina verso il mare; i primi conflitti con le figure di riferimento; il luogo in cui ha origine lo smarrimento, la vertigine per lo stare al mondo. 

Riguardo la resa in versi della tua scrittura, si nota una volontà di avvicinamento alla prosa, seppure non scompaia l’importanza fonico-ritmica e semantica dei versi. Ritieni la tua poesia antilirica, per te ha ancora un valore e un senso l’etichetta “poesia lirica”? 

Come ha osservato Mazzoni nel suo Sulla poesia moderna, con il termine lirica si intende un genere in cui il racconto di frammenti autobiografici è associato ad uno stile personale. Ora, non posso negare di aver scritto testi autobiografici; lo stile è personale e rimanda all’egocentrismo, proprio di tutti coloro che scrivono poesia: ciò che desidero è esprimere me stessa, come tutti. E, tuttavia, i brani di riflessione filosofica inseriti nella versificazione, lo spostamento verso la prosa, da un lato e l’autobiografia e la frammentazione del verso data dagli enjambement, dall’altro, rendono questi testi degli ibridi; credo si noti maggiormente nell’inedito, costruito sul principio del montaggio di diversi piani di realtà e del discorso. Da un punto di vista formale questa precisazione può avere ancora senso; da un punto di vista più profondo, quello che rimanda alla meccanica di impulsi che muove chi agisce – chi dice io non fa eccezione – questa distinzione tra lirico e antilirico non ha ragion d’essere.

In epigrafe al tuo libro, troviamo due citazioni da Wallace Stevens («A. A violent order is disorder; and / B. a great disorder is an order. These / Two things are one» e Guido Mazzoni («Sono una piccola persona, nessuna fede / mi accoglie veramente; voglio molto poco»). Ritieni i due autori dei modelli di scrittura e dei maestri? Ce ne sono altri che ritieni fondamentali per il tuo percorso? Quale tipo di poesia pensi sia, invece, la più lontana da te, e per quali motivi?

È una domanda difficile. Ritengo Wallace Stevens uno dei maggiori poeti del secolo scorso, dal momento che ha saputo tenere insieme, nella sua scrittura, narrazione del reale e piano teoretico: rappresenta un modello cui aderire, indubbiamente. Guido Mazzoni è stato il mio docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Siena. E, tuttavia, è necessario allontanarsi dai maestri, dai padri. Quest’operazione è necessaria per due ragioni: in primo luogo, il bisogno di riconoscere sé stessi in uno spazio ideale entro cui si collocano queste figure è qualcosa di regressivo; in secondo luogo, tenersi presenti a sé stessi significa, anche, riconoscere sé stessi nell’intero, bastare a sé stessi. E, ciò nonostante, abbiamo bisogno di essere riconosciuti. Stevens e Mazzoni, tuttavia, sono solo due degli autori che hanno influenzato la mia scrittura: nello stesso campo si collocano Carlo Bordini, Milo De Angelis, Mario Benedetti, Amelia Rosselli e Anne Sexton. Quanto alla poesia che mi è estranea, penso a Salvatore Quasimodo: i suoi testi di ascendenza arcaica e simbolista, che non rimandano all’esperienza vissuta ma a un sovra-mondo letterario in cui rifugiarsi sono pericolosi, oltre che poco interessanti dal punto di vista estetico.

intervista a cura di Francesco Ottonello

Via Ascanio Sforza

Ho piegato le lenzuola nella casa immensa
al numero quattordici sono sola non ha niente
a che vedere con l'appartamento a Milano
in cui mia sorella vive – il naviglio pavese alla destra
del palazzo, il kebabbaro, Domino's Pizza,
la 71 per Romolo – Milano è fredda 
ma ti avvolge con i profili alti
delle case ti fa respirare come in una gabbietta
per piccoli uccelli, Milano ti studia. Giace
intanto il riso in bianco nello stomaco
sento salire la febbre rivedo un'infermiera
come madre accudirmi mentre 
sogno via Ascanio Sforza e dentro il letto
mi aggroviglio.


*


Scorie

Mentre passo l'aspirapolvere senza cedere
alla fatica compio un'azione meccanica
priva di senso: ripulire il pavimento
dalle scorie d'esistenza è ciò che mi rimane
e non è indegno, se sento
il corpo estraneo come protesi obbligata
o un'estensione della mente. Quando
poi lo ripongo e nella calma del pomeriggio
torno a riconoscermi in piedi e mani solo
allora posso dirmi mia come quando
mia madre mi contatta e non rispondo
o attendo in facoltà l'appello
prima di dirmi viva,
prima di esistere compiutamente.


*


Come in metropolitana

Questa concessione alle cose
mi conduce a pause nel corso
degli eventi – la corsa sotto
la pioggia, il bagno al fiume,
l'aperitivo sul Naviglio Grande,
la sigaretta nel giardino
della facoltà – questi eventi sono miei,
appartengono alla mia storia privata e personale,
li uso come maschera per schermarmi
dagli altri, precedono i conflitti
che ci definiscono. Rivedo le ombre
degli oggetti dal buio della mia stanza, le pareti
alte e bianche, i pochi quadri scelti,
le librerie ordinate, il personal computer,
non giustifico questi oggetti, esistono
per sé, la lingua dei genitori distante,
oltre le nuvole. E mentre ti dicevo
«guarda» e ti indicavo il mare
hai smesso di parlare, è stato un attimo
di gioia forzata, come in metropolitana
a Comasina, quando tutto sembra
autentico e il giorno è più lontano.


*


Milano

Queste mani, mentre stiamo fermi e non parliamo,
se temo la tenerezza che mi riservi e
non c'è nulla, nulla che importi:
ho contato i passi mentre andavi via,
ho dato un nome al tuo volto,
rinunciando al mio, è non avere
più vent'anni, questa morte è per tutti.
Eravamo uno che è morto,
questa vita materiale non ci soddisfa
se non sappiamo esistere, tra lo scaldabagno
e il cielo blu di Milano – non c'è nebbia o 
timore – nell'indicibile sensazione
del nulla cui volgiamo lo sguardo, nella sola percezione
che conta, che adesso esiste.
E noi sappiamo e non sappiamo,
abbiamo freddo ma come se non fossimo noi,
e viale, dire viale, toccarlo,
andare nel gennaio del duemila e diciotto,
nessuno ci guardava e noi guardavamo
tutto.


poesie da "la vita così com'è" (2018, Marco Saya edizioni)
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Discorsi

Si finisce di vomitare
se l’odore è forte abbastanza,
se ciò che tiene fermi i frammenti
non dura, resta poco; quindi adesso

sei solo per la strada, qui è tutto
occupato dal vuoto che ripari
con il pensiero: anche voi lasciate
filtrare una psiche lacerata dal senso che ricerco
una volta sceso, come ora, a Rogoredo.

(Quindi galleggiano, penso ai corpi
nell’altra stanza, all’orizzonte
dei discorsi che muta.)

Le rivolte ad Hong-Kong sfuggono al controllo.


inedito (2020)
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Valentina Murrocu

Valentina Murrocu

Valentina Murrocu (Nuoro, 1992) vive a Siena. È laureanda in Storia e Filosofia presso l’Università degli Studi di Siena. Una scelta di suoi testi è apparsa sulla rivista online Formavera. Nel 2018 è uscita la sua opera prima di poesia, La vita così com’è, per le Marco Saya Edizioni.

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